SINDROME DA LONG COVID: POSSIBILI TERAPIE

Nell’ agosto 2021, sono stati confermati e segnalati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) oltre 210 milioni di casi di COVID-19 e

oltre 4,4 milioni di decessi, sebbene le stime superino di gran lunga queste cifre. Tuttavia, la storia naturale, il decorso clinico e le conseguenze di questa nuova malattia non sono ancora del tutto comprese. La maggior parte dei pazienti con COVID-19 ritorna alla precedente condizione di salute dopo l’infezione acuta da SARS-CoV-2, ma una parte di questi riporta problemi a lungo termine. La percentuale di quante persone sono affette da queste conseguenze a lungo termine rimane sconosciuta, ma i recenti rapporti pubblicati dall’OMS indicano che circa il 10-20% dei pazienti affetti da COVID-19 manifesta sintomi persistenti per settimane o mesi dopo l’infezione.
Nonostante diverse organizzazioni abbiano proposto svariate definizioni come quella di “long COVID”, solo nel Settembre 2020, in risposta alle richieste degli Stati membri, l’unità di Classificazione e Terminologie dell’OMS ha creato dei codici all’interno dell’International Classification of Disease (ICD-11), introducendo la “condizione post COVID-19”. Tuttavia, si è resa necessaria la standardizzazione di questa nomenclatura e la definizione del caso di questo tipo di problemi per facilitare la discussione globale e semplificare le metodologie di ricerca, la gestione delle strategie e politiche sanitarie. Per tutti questi motivi la stessa OMS, nel 6 Ottobre 2021, ha condotto uno studio in cui ha cercato di determinare i domini e le variabili per una definizione di un caso clinico standardizzato: per mezzo del metodo Delphi e attraverso il lavoro di pazienti, medici, ricercatori è stato possibile giungere a una definizione che potrà ottimizzare il riconoscimento e la cura delle persone che vivono questa condizione. Secondo la definizione, il LONG COVID sarebbe caratterizzato da “sintomi che durano da almeno 2 mesi e non possono essere spiegati da una diagnosi alternativa. I sintomi più comuni includono affaticamento, mancanza di respiro, disfunzione cognitiva”, ma anche dolore addominale, senso del gusto e olfatto alterati, ansia, vista offuscata, dolori al petto, tosse, depressione, febbre intermittente, problemi di memoria, problemi gastrointestinali, mal di testa, dolori muscolari, disturbi del sonno, tachicardia e altri, che “generalmente hanno un impatto sulla quotidianità e sul generale funzionamento dell’individuo colpito. I sintomi possono insorgere dopo il recupero iniziale da un’infezione da COVID-19 o persistono dalla malattia iniziale. In più possono fluttuare e ripresentarsi nel corso del tempo” (WHO,2021, p. 1).

Dunque ad oggi ci sono stati diversi tentativi di definire le conseguenze del COVID-19, tuttavia lo studio qui presentato è il primo ad essere riuscito ad arrivare ad una descrizione compatibile e coerente con i suggerimenti disponibili altrove. E’ probabile che vi possano essere dei cambiamenti man mano che emergono nuove prove e che la nostra comprensione delle conseguenze del COVID-19 continua ad evolversi, nonostante ciò questa definizione rappresenta il primo passo per la sua comprensione e risulta fondamentale per la ricerca e l’applicazione di strategie e politiche sanitarie adeguate.

Il COVID-19 ha effetti diretti sul sistema nervoso, con conseguenti sintomi neurologici e deficit cognitivi che richiedono nuovi interventi riabilitativi.
Considerando che un training di potenziamento cognitivo e l’utilizzo di tecniche per la stimolazione cerebrale sono strumenti utili nell’ambito della neuroimmunomodulazione, è infatti possibile sfruttare protocolli di neuromodulazione per il potenziamento della risposta immunitaria, sulla base della lateralizzazione emisferica del sistema immunitario.
Queste evidenze rappresentano una grande possibilità per l’utilizzo di una terapia digitale applicata alle conseguenze sempre più diffuse da COVID-19, cui la sanità si troverà a rispondere nei prossimi mesi.

 

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