Psicologia del Fighter

Negli sport da combattimento la preparazione mentale richiesta è pari o superiore ad altre discipline sportive, e molto frequentemente sottovalutata e poco preparata, nonostante sia evidente a tutti i praticanti quanto sia rilevante lo stato emotivo interno dell’atleta che si accinge ad affrontare una gara di questo tipo. Lo scontro diretto con l’avversario, il susseguirsi di rapide combinazioni in cui il tempo di reazione e di recupero è ristretto e la probabilità di dover combattere in situazioni di svantaggio, richiedono una mente consapevole, preparata ed allenata.

Gli atleti combattenti sono spinti da forti motivazioni, vanno alla ricerca di intense emozioni e desiderano sapere come gestirle e sfruttarle a proprio vantaggio soprattutto in combattimento. Generalmente infatti, i fighters si allenano con meticolosità, intensità, calibrando perfettamente il volume, la durata e l’intensità del loro allenamento fisico, vivendo a stretto contatto con le forti emozioni che ne derivano. Tuttavia, la grande maggioranza di loro, non riesce ad identificare con esattezza il proprio stato interno (come accade a numerose persone anche al di fuori dello sport), e questo non consente loro di modulare il loro stato emotivo in maniera adeguata, per incanalarlo in ambito positivo, al fine di migliorare le performance.

Chi arriva sul ring è un individuo selezionato dalle dure leggi della palestra, una personalità sportivamente (non patologicamente) aggressiva, fatta di coraggio e non di astiosità. Per alcuni studiosi, l’atleta combattente esprime nelle sue doti di tenacia, pazienza, resistenza al dolore, l’esistenza di un nucleo psicologico fatto di insicurezza, inadeguatezza sociale, aggressività reattiva oppure insufficienza vitale. L’esigenza di una pratica agonistica che richiede perseveranza, autocontrollo e dominio dell’aggressività, implica un elevatissimo livello delle abilità psicomotorie (reazioni pronte e veloci) e di schemi motori automatizzati ma suscettibili di adattamenti situazionali dettati dall’intelligenza. L’aggressività del lottatore ha due direzioni: una diretta verso l’esigenza di vincere, piegare l’avversario, e l’altra espressa come bisogno intrapunitivo, cioè come forma di auto-mortificazione che spiega la capacità di soffrire e accettare le frustrazioni.

Altra caratteristica psicologica degli sport da combattimento e’ la necessità’ di un notevole coraggio, capace di dominare non soltanto la paura ma anche le spontanee reazioni autoconservative . La reazione al pericolo (la cosidetta risposta di attacco-fuga, perfettamente descritta dagli studiosi dell’evoluzione umana) ha fondamenti filogenetici: l’autoconservazione è uno scopo primario che guida l’esistenza umana. Del resto un intensa paura di morire è un elemento fondamentale della nostra vita emotiva, per cui nessuno è libero dalla paura del pericolo della morte. Il fighter deve costantemente controllare l’ansia e la paura derivanti dall’istinto di conservazione. Gli schemi motori istintuali devono essere sostituti con il gesto tecnico. E’ come se attraverso il combattimento un po’ si mettesse in scena il rischio per la propria incolumità, con la possibilità di agire le proprie spinte autodistruttive pur senza danneggiarsi, incontro dopo incontro. Il controllo del rischio si manifesta così come controllo della paura della morte. L’atto sportivo diventerebbe così un mezzo per esorcizzare la paura. L’autoaffermazione attraverso il rischio permette di superare penosi sentimenti di inadeguatezza, in quanto prova-specchio della propria esistenza. Anche la volontà è indispensabile al fighter per avere il coraggio di resistere invece di ritirarsi anche quando si accorge della propria inferiorità. Nei lottatori, l’aggressività stimola l’agonismo, forse più che in altri sport. L’agonismo è la manifestazione matura , costruttiva e creativa dell’aggressività, volta all’autorealizzazione dell’individuo.

Altro aspetto importante per ogni atleta è sviluppare la capacità di gestire l’ansia da prestazione pre-gara: esistono delle “trappole mentali” che gli atleti affrontano prima di una gara importante e che possono far insorgere stati di ansia troppo elevati. Un atleta mentalmente allenato conosce almeno tre o quattro tecniche di gestione dell’ansia da inserire nel suo “borsone” e da tirare fuori al momento opportuno, durante il riscaldamento pre-match e nei minuti precedenti la salita sul ring. A questo scopo sono molto utili tecniche di rilassamento, tecniche di respirazione addominale, tecniche di controllo dei pensieri, tecniche distrattive e tecniche di rilassamento muscolare.

Ma sul concetto di rilassamento spesso si cade in errore. Non possiamo pensare che un atleta per performare bene debba essere rilassato come quando è a casa, seduto comodamente sul proprio divano. E’ necessario lavorare sul concetto di “flow”(stato di prestazione ottimale), sul concetto di “arousal” o di attivazione psicofisiologica, insegnando all’atleta come funziona il nostro corpo e la nostra mente durante una prestazione sportiva. Ogni atleta ha la sua zona di massima prestazione mentale, che si trova esattamente tra l’ansia e l’eccessivo rilassamento. La difficoltà è collocarsi in questa zona senza scivolare da una parte o dall’altra perchè in quei casi la performance sarà sicuramente inferiore alle potenzialità. Su questo aspetto è necessario lavorare sulla fisiologia umana con apposite tecniche (controllo del battito cardiaco, apparecchiature di biofeedback, nuovamente respirazione e controllo della muscolatura) in associazione a tecniche di imagery, spesso anche abbinate alla musica che consentano all’atleta di ricreare la giusta condizione mentale per salire sul ring.

Una volta giunti sul ring c’è un fattore determinante per ogni atleta. Spesso in tale circostanza gli atleti riferiscono pensieri del tipo: “sentivo, già prima di iniziare, che questo incontro l’avrei portato a casa” oppure “ho capito subito, appena sono salito sul ring che non c’era nulla da fare…”.

Quando un atleta inizia a dirsi queste cose sta già determinando buona parte della sua riuscita o della sua sconfitta. Queste frasi sono convinzioni che condizionano il senso di auto-efficacia personale e di fiducia nelle proprie capacità. E gli studi scientifici ci dicono che le performance fisiche sono direttamente proporzionali al livello di auto-efficacia dell’atleta. In altre parole un atleta che sale sul ring con un pensiero del tipo: “non c’è nulla da fare, lui è più forte” riuscirà a mettere in campo la metà delle sue potenzialità.

Anche con i fighters è possibile lavorare con delle sessioni di imagery o visualizzazione in cui l’atleta lavora sul ricreare mentalmente tutti gli scenari possibili (soprattutto quelli negativi) e immagina se stesso reagire a quelle situazioni sviluppando quindi strategie di coping.

E’ importante che l’atleta conosca un pò il funzionamento del nostro cervello che, in quanto emulatore di realtà, ci permette di vivere in immaginazione le stesse sensazioni che potremmo provare dal vivo. Grossolanamente, l’aver immaginato di risolvere una situazione critica in cui l’avversario ci colpisce e ci mette in svantaggio, aver immaginato come affrontare quella situazione in quell’evenienza, allena la nostra mente esattamente come se quell’esperienza l’avessimo vissuta sul serio.

Dott. Massimo Amabili
Psicologo e Psicoterapeuta Ascoli Piceno e Teramo

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